sabato 16 gennaio 2010

UN ANNO e poco altro


Auguri a tutti.

Avrei voluto scrivere prima della fine dell'anno, quando è venuta la neve a Massa, o poco dopo, quando il mare sempre a Massa si è portato via qualche bagno quasi per intero.

Avrei voluto scrivere subito dopo l'inizio del nuovo anno, di una bella festa di fine anno alla quale ho partecipato con gente divertente, di un cortometraggio imbecille che abbiamo girato nella nebbia dell'appennino.

Ma non sono riuscito.

Mentre recupero il tempo per farlo, pubblico l'inizio questo racconto che ho scritto ormai sei sette anni fa, forse di più.

Con una promessa.

Entro l'anno finisco anche questo.
Insieme a mille altre cose. Che non riesco mai a stargli dietro.

Perchè oggi c'è un bel sole, fuori, e con tutti i s(e/o)gni del mondo su un foglio, uno schermo, una pellicola o quello che abbiamo, non riusciremo mai a renderlo vero.

Resta solo una cosa, da fare.

Pubblico questo pezzo di racconto e la faccio.

La vita, diceva Oscar Wilde, è ciò che succede mentre noi pensiamo ad altro.

Ultima cosa. Un fanto è un ragazzo: una di quelle cose ganze e terribili che popolano la Versilia.



IMPRESSIONE: LA FINE DELL’ ESTATE.


Di tanto in tanto il retino si piantava nella rena per uscirne con qualche mozzicone di sigaretta o una cannuccia di plastica di traverso; il fanto teneva il passo corto e la sua solita espressione pacata.

Mario che era un gran brav’uomo se lo guardava andare avanti e indietro di sdraio in sdraio nell’aria spumosa del primo vento debole.

Quando il retino era troppo pieno il fanto lo svuotava dentro uno dei cesti là tra le file di ombrelloni e continuava, ormai aveva quasi finito.

Stamani al suo arrivo aveva trovato Mario che spostava un lettino per pulire sotto: la pioggia della notte aveva indurito la sabbia e non si poteva passare il colo, spiegava il vecchio con la sigaretta piantata in bocca.

Prima di togliersi di bocca la sigaretta aveva passato il retino al fanto e gli aveva detto di finire; era andato a sedersi sotto al capanno ed era ancora là col naso puntato da qualche parte sopra gli ombrelloni.

Il cielo restava opaco e scuro, non solo per l’ora del mattino: qualcosa saliva lentamente lungo lo stomaco e dietro, per la schiena di Mario, qualcosa che aveva raggiunto i suoi primi passi stamani nella sabbia priva di calore e che una buona volta si decideva a stringere: davanti agli occhi Mario aveva un appartamento con le finestre aperte sulle palme ai bordi del viale, alcuni oggetti sopra un tavolo che non poteva distinguere per il velluto della sera…

Il fanto conosceva il suo lavoro, mancava solo di esperienza.

Mario fu distratto dal sibilo di un cappuccio di plastica contro la tela dell’ombrellone, chiamò forte il fanto e gli fece cenno col braccio.

Quello interruppe il lavoro ed iniziò a risalire la passerella, guardando le file.

“Oh!”

“Oggi non li apriamo gli ombrelloni, tà. Ho visto le rondini volare basse e mi sa che torna a piovere, porta aggiù la roba per la guardia e pianta l’ombrelo lontano dall’acqua; po’ passe la granata che t’ha finito.”

Il fanto non rispose nemmeno.

Mario parlava senza sconti, uguale per tutti, da decine di anni: mai cambiato una parola, mai torto una virgola.

Per cinque mesi all’anno da quarant’anni aveva a che fare con la gente, e il grosso della gente era di fuori. Mario non ne aveva mai fatto una questione.

D’altronde non aveva a cuore di essere capito alla lettera. Li guardava dritti negli occhi, per lui valeva qualsiasi lingua al mondo. Non esistono due stranieri che si guardano negli occhi, pensava Mario.

Il fanto, d’altra parte, lo aveva trovato proprio là.

In fondo a quei buchi di sabbia che aveva in mezzo al viso.

Dal brav’uomo che era, Mario aveva trovato qualcosa dal primo giorno negli occhi del fanto.

Qualcosa che gli ricordava il modo che ha il cemento di colare e depositarsi, di come sembra irrecuperabile il fondo.

L’intesa tra i due era stata subito buona.

Il fanto reclinava appena la testa, si passava la mano sui capelli corti mentre ascoltava le istruzioni di Mario, che lo teneva d’occhio per accertarsi che capisse.

Non dava mai un cenno di comprensione.

Alla fine però sbrigava tutto quello che gli era stato chiesto, in tempo ragionevole.

Se si perdeva un attimo, si fermava a metà della passerella, come ascoltando qualcosa.

Mario allora lo avvicinava e gli lasciava qualche boccone di rimbrotto.

I salvagente… la chiave dello stanzino… porta via i cesti.

Erano andati bene; per tutta l’estate che c’era stata, oramai.

Il vento cominciava ad alzare, giocava con la maglia tesa sul petto del fanto disegnando piccole onde sulla stoffa. La schiena di poco piegata sul manico corto della scopa, il fanto saliva a piccoli passi preceduti dai colpi delle setole che ripulivano la passerella dalla sabbia.

Il fruscio delle spazzolate rompeva lo scroscio crescente e più disteso della mareggiata che aumentava lentamente.

Fatta la passerella, il fanto chiuse la scopa e gli attrezzi nello stanzino e si andò a sedere vicino a Mario, dall’altra parte del tavolo.

Mario si girò verso di lui: “oggi è andata di lusso, eh?”

Il fanto sorrise piano, poi prese da un piattino sul tavolo una delle due paste.

“Come hai fatto con i pattini?”

“Il salvataggio l’ho spostato su di poco, l’altro l’ho portato quasi addosso alla prima fila. Il mare li aveva portati parecchio giù.”

“Mm…”. Mario prese la sua pasta e fecero colazione, in silenzio.

“Sciopero radio, oggi?”

Sul tavolo dietro al piattino Mario di solito metteva una radiolina… diceva riucisse a prendere la Corsica, se il tempo era buono e a pochi metri dalla costa, ma il fanto non l’aveva mai sentita.

In realtà dubitava della leggenda: il segnale era disturbato anche con molte frequenze locali, ma al vecchio non l’aveva mai detto.

Ci sembrava attaccato, Mario, a quell’aggeggio.

Stringeva gli occhi con pazienza e girava quella rotella come si fa con le cassaforti, in mezzo ai rumori delle stazioni.

Se trovava musica Italiana dei suoi anni era contento: ogni tanto provava qualcosa di nuovo per il fanto, ma ne rimaneva deluso sempre.

Il più delle volte così finiva a giornali radio e bollettini della guardia costiera.

Al fanto non dispiaceva.

Mario che era un brav’uomo era interessante da ascoltare quando parlava del mare come lo aveva imparato; di come gli era legato anche se lo aveva lasciato presto.

Stamani non c’erano bollettini e non c’erano racconti.

Senza nessuno che lo annunciasse stamani il mare si faceva avanti e riempiva l’aria fino al cielo.

Loro sulle sedie avevano tutto addosso ma non riuscivano a parlarne.

Il vento spingeva i minuti, li muoveva piano.

Il fanto fu il primo.

“Vado a far dare un occhio al motorino… è la seconda volta che mi lascia a piedi.”

“Non andare qui a Marina, tà. Non ce ne sono di buoni. Cerca verso Massa… quello al Cinquale sulla via verso il mare lavora bene. Non farti fregare.”

Il fanto corrucciò un poco la fronte.

“Mi si spegne. E lo devo spingere. Da ora che sono arrivato al Cinquale è sera. No, vado da un mio amico, ce lo facciamo da soli.”

“E’ la meglio.”

Il fanto si stava già incamminando verso la fine delle cabine, sempre con quel passo misurato.

Mario alzò gli occhi. Il fanto e le nuvole che aveva sopra, rapprese addosso alle Apuane.

“Copriti che arriva!”

Da laggiù il fanto si chiuse nelle spalle, prima di uscire.


2 commenti:

Francy ha detto...

....mamma mia, ma lo sai che scrivi davvero bene, Andrea?...non smettere!!
un abbraccio,
Francy

Unknown ha detto...

Mi ricorda di quando giovane proprio in uno di quei bagni portati via dal mare aiutavo anch'io a pulire e mettere via gli ombrelloni in caso di bufera, pero',altri tempi, altre storie il mare no,quello e' sempre lo stesso ce lo porteremo sempre dietro in ogni luogo e cercheremo ovunque una pisciata d'acqua che ce lo possa far ricordare ...............