martedì 28 dicembre 2010
Chiede un gabbiano
lunedì 22 novembre 2010
Insieme
venerdì 1 ottobre 2010
Nuove Invasioni
venerdì 6 agosto 2010
S come vacanze
martedì 29 giugno 2010
Un sogno
venerdì 25 giugno 2010
Peter Gomez
lunedì 3 maggio 2010
Parlare con la gente passeggiare con i re
La sala è grande.
Qualcuno sta già facendo i conti: altro che appartamento..
Matteo sorride: son due, appartamenti.
sposta lo sguardo verso il centro della sala, con il dito la taglia in due per largo.
Chi è seduto, chi non riesce a stare in piedi e riempie lo spazio camminando.
Molti di noi hanno il naso puntato in alto.
Qualcuno risponde: ..si, bona! L'hai visto il soffitto?
Matteo ride: Mosca, se smezzi anche in alto ce ne viene quattro, allora.
Si ride. Siamo nervosi tutti.
Daniele è in un angolo con Marco, parlano sottovoce: Il dvd l'avrà visto? si, si, lui l'ha visto, me l'hanno detto.
La cosa che mi rende più nervoso, di questa situazione, è il fatto che ci lascino qui chiusi. Ogni tanto si affaccia uno di loro.
Più per controllare che sia tutto a posto. Gli frega mica niente di come si sta.
Ma è anche vero che a noi ci va bene. Bisogna capire che in queste circostanze c'è un protocollo.
In queste circostanze.
Si chiama Sala dello Zodiaco, c'è scritto in questo leggìo davanti a me, e io i Segni non li vedo mica: alle pareti ci sono quadri giganti; scene di caccia semiesotica che sembrano copiate dal rinascimento: brutti leoni che staccano la testa a gazzelle fatte male, alberi e vegetazione sfarzose, il sangue quello reso bene.
e noi, in mezzo, abito scuro come nell’invito.
Che continuiamo a scattare foto. Ce ne saremo fatte una ventina, ormai, tutti insieme e a gruppi.
D'altronde, pensavo, prima che ci ribeccate con questi vestiti addosso..
Tutti tranne Matteo, che vestito normale fa un effetto strano: come se qualcuno avesse preso uno di questi quadri qui e ci avesse appiccicato una figurina.
Non so se essere dispiaciuto o contento, per lui, ma la verità è che, come gli altri, sono distratto.
Continuiamo a dirci che è una bella occasione; Daniele dice siamo stati bravi, siamo d'accordo che è un peccato per Fede, che ha la partita.
Come alla prima proiezione, quindi. Manca Fede e manca Isaia.
Marco, suo figlio, me lo ha anche appena detto. Ti immagini se c'era me pà..
E io non lo so, giuro.
Me lo ricordo che si emozionava, Isaia, e secondo me non sarebbe stato nella pelle.
Come non ci sto io.
Sto pensando se ci sarà il fotografo, che magari ti fai una foto e un domani te la attacchi al muro, che ne so, dovessi avere uno studio..
"E sicchè vive a Roma.." dietro di me.
Mi giro e Alberto è lì che mi guarda. Alberto è stato socio fondatore, con Isaia.
Ora gli occhi gli ballano tra me e la finestra.
“Eh, mi sa di si…” la butto lì. Senza capire niente.
Lui rimane immobile, mi guarda un po’ storto. Sto facendo la figura del malato di Alzhaimer davanti a un vecchio di quasi novant’anni, che per giunta mi da del lei perché sono il regista..
“si, si, mi scusi Alberto. Si, vivo qui…”
Cerco di spostarmi verso la finestra: vorrei continuare il mio sogno di gloria, pensare all’attimo della stretta di mano: mi immagino uno sfondo chiaro..
Intanto però siamo un vecchietto che accompagna un disturbato mentale alla finestra.
Alberto parla ancora: quello laggiù è San Pietro?
Non riesco a mettere a fuoco la stretta di mano, gli rispondo da un chilometro di distanza.
No, San Pietro è più in là.
“E cos’è, allora, quello?”
“Non lo so, forse Santa Maria del Popolo.” Eh, mò ivvén..
“E quelle costruzioni sulla collina?”
Come quando stai sognando e continuano a scuoterti.
“deve essere.. come si chiama..” ci metto cinque minuti per farmi venire “..l’osservatorio!”
Alberto tira un sospiro. “Quando sono venuto a Roma a fare il militare quella collina lì era tutta verde, mi mandavano due volte al giorno..”
E’ troppo. Via dalla finestra, mi avvicino ad un tavolo.
“Oh, daniè, questo qui non ce lo volevo vedere, qui, eh!”
Sempre Alberto, ora tiene lo spigolo del tavolo tra pollice e indice.
Gli altri si avvicinano.
“Potta, hai visto? È ricostruito. Cosa ci voleva a farlo vero? ‘Un lo vedino com’è brutto? E’ finto.”
Mi spiega che prendi dello scarto di marmo e lo ricostruisci per la superficie, dentro lo riempi con non capisco bene cosa.
Mi allontano ancora.
Per la prima volta vorrei essere solo.
Ho davanti la porta da cui fra poco entrerà il nostro ospite.
Ci disporranno in fila, prima. Noi zitti e muti.
Ripenso a quello che mi ha detto Fede, al telefono:
“Non lo so, non credo che mi ricapiterà un’occasione del genere, nella vita..”
Poi mia mamma: “non ho parole per dirti quanto ho il cuore gonfio”
La mano di Alberto si appoggia sulla cornice della porta, a fianco a me.
“La senti? Appoggia la mano. Questo è marmo. Io so anche da dove viene. C’è una cava, in Piemonte. E’ lo stesso marmo del duomo di Milano.
Da lì, o dal Portogallo. Ma il Portogallo non può essere.
Lo so, lo faccio da tutta la vita.
Senti com’è freddo.”
Appoggio la mano.
Lui si gira verso Daniele.
“Daniè, io sono fatto così. Non mi riesce di emozionarmi per questa roba. Se ci sono i sacrifici, le battaglie, allora piango. Ma questa roba qui non mi riesce.”
Fra poco entrerà il Presidente della Repubblica, da questa porta.
Arriverà di corsa, mi stringerà la mano senza guardarmi negli occhi, parlerà di fretta e di fretta ascolterà, come chiede il protocollo, in queste circostanze.
Io sembrerò uno degli animali di questi quadri. Un trofeo da caccia. Un regista impagliato.
Lui mi sembrerà più basso di come pensavo, mi sembrerà una brava persona, tenuta chiusa da quei meccanismi che ti possono anche schiacciare come imbamboleranno me, in queste circostanze.
Mi chiederò se vale la pena vivere una vita, in queste circostanze.
Per ora, ringrazio di non essere solo, di essere con Alberto e con gli altri.
Ringrazio il freddo di questo marmo.
martedì 27 aprile 2010
Tu tubi
venerdì 5 marzo 2010
Mentre scendi
lunedì 8 febbraio 2010
Let it snow..
giovedì 4 febbraio 2010
Nel sogno sono il gatto
sabato 16 gennaio 2010
UN ANNO e poco altro
IMPRESSIONE: LA FINE DELL’ ESTATE.
Di tanto in tanto il retino si piantava nella rena per uscirne con qualche mozzicone di sigaretta o una cannuccia di plastica di traverso; il fanto teneva il passo corto e la sua solita espressione pacata.
Mario che era un gran brav’uomo se lo guardava andare avanti e indietro di sdraio in sdraio nell’aria spumosa del primo vento debole.
Quando il retino era troppo pieno il fanto lo svuotava dentro uno dei cesti là tra le file di ombrelloni e continuava, ormai aveva quasi finito.
Stamani al suo arrivo aveva trovato Mario che spostava un lettino per pulire sotto: la pioggia della notte aveva indurito la sabbia e non si poteva passare il colo, spiegava il vecchio con la sigaretta piantata in bocca.
Prima di togliersi di bocca la sigaretta aveva passato il retino al fanto e gli aveva detto di finire; era andato a sedersi sotto al capanno ed era ancora là col naso puntato da qualche parte sopra gli ombrelloni.
Il cielo restava opaco e scuro, non solo per l’ora del mattino: qualcosa saliva lentamente lungo lo stomaco e dietro, per la schiena di Mario, qualcosa che aveva raggiunto i suoi primi passi stamani nella sabbia priva di calore e che una buona volta si decideva a stringere: davanti agli occhi Mario aveva un appartamento con le finestre aperte sulle palme ai bordi del viale, alcuni oggetti sopra un tavolo che non poteva distinguere per il velluto della sera…
Il fanto conosceva il suo lavoro, mancava solo di esperienza.
Mario fu distratto dal sibilo di un cappuccio di plastica contro la tela dell’ombrellone, chiamò forte il fanto e gli fece cenno col braccio.
Quello interruppe il lavoro ed iniziò a risalire la passerella, guardando le file.
“Oh!”
“Oggi non li apriamo gli ombrelloni, tà. Ho visto le rondini volare basse e mi sa che torna a piovere, porta aggiù la roba per la guardia e pianta l’ombrelo lontano dall’acqua; po’ passe la granata che t’ha finito.”
Il fanto non rispose nemmeno.
Mario parlava senza sconti, uguale per tutti, da decine di anni: mai cambiato una parola, mai torto una virgola.
Per cinque mesi all’anno da quarant’anni aveva a che fare con la gente, e il grosso della gente era di fuori. Mario non ne aveva mai fatto una questione.
D’altronde non aveva a cuore di essere capito alla lettera. Li guardava dritti negli occhi, per lui valeva qualsiasi lingua al mondo. Non esistono due stranieri che si guardano negli occhi, pensava Mario.
Il fanto, d’altra parte, lo aveva trovato proprio là.
In fondo a quei buchi di sabbia che aveva in mezzo al viso.
Dal brav’uomo che era, Mario aveva trovato qualcosa dal primo giorno negli occhi del fanto.
Qualcosa che gli ricordava il modo che ha il cemento di colare e depositarsi, di come sembra irrecuperabile il fondo.
L’intesa tra i due era stata subito buona.
Il fanto reclinava appena la testa, si passava la mano sui capelli corti mentre ascoltava le istruzioni di Mario, che lo teneva d’occhio per accertarsi che capisse.
Non dava mai un cenno di comprensione.
Alla fine però sbrigava tutto quello che gli era stato chiesto, in tempo ragionevole.
Se si perdeva un attimo, si fermava a metà della passerella, come ascoltando qualcosa.
Mario allora lo avvicinava e gli lasciava qualche boccone di rimbrotto.
I salvagente… la chiave dello stanzino… porta via i cesti.
Erano andati bene; per tutta l’estate che c’era stata, oramai.
Il vento cominciava ad alzare, giocava con la maglia tesa sul petto del fanto disegnando piccole onde sulla stoffa. La schiena di poco piegata sul manico corto della scopa, il fanto saliva a piccoli passi preceduti dai colpi delle setole che ripulivano la passerella dalla sabbia.
Il fruscio delle spazzolate rompeva lo scroscio crescente e più disteso della mareggiata che aumentava lentamente.
Fatta la passerella, il fanto chiuse la scopa e gli attrezzi nello stanzino e si andò a sedere vicino a Mario, dall’altra parte del tavolo.
Mario si girò verso di lui: “oggi è andata di lusso, eh?”
Il fanto sorrise piano, poi prese da un piattino sul tavolo una delle due paste.
“Come hai fatto con i pattini?”
“Il salvataggio l’ho spostato su di poco, l’altro l’ho portato quasi addosso alla prima fila. Il mare li aveva portati parecchio giù.”
“Mm…”. Mario prese la sua pasta e fecero colazione, in silenzio.
“Sciopero radio, oggi?”
Sul tavolo dietro al piattino Mario di solito metteva una radiolina… diceva riucisse a prendere la Corsica, se il tempo era buono e a pochi metri dalla costa, ma il fanto non l’aveva mai sentita.
In realtà dubitava della leggenda: il segnale era disturbato anche con molte frequenze locali, ma al vecchio non l’aveva mai detto.
Ci sembrava attaccato, Mario, a quell’aggeggio.
Stringeva gli occhi con pazienza e girava quella rotella come si fa con le cassaforti, in mezzo ai rumori delle stazioni.
Se trovava musica Italiana dei suoi anni era contento: ogni tanto provava qualcosa di nuovo per il fanto, ma ne rimaneva deluso sempre.
Il più delle volte così finiva a giornali radio e bollettini della guardia costiera.
Al fanto non dispiaceva.
Mario che era un brav’uomo era interessante da ascoltare quando parlava del mare come lo aveva imparato; di come gli era legato anche se lo aveva lasciato presto.
Stamani non c’erano bollettini e non c’erano racconti.
Senza nessuno che lo annunciasse stamani il mare si faceva avanti e riempiva l’aria fino al cielo.
Loro sulle sedie avevano tutto addosso ma non riuscivano a parlarne.
Il vento spingeva i minuti, li muoveva piano.
Il fanto fu il primo.
“Vado a far dare un occhio al motorino… è la seconda volta che mi lascia a piedi.”
“Non andare qui a Marina, tà. Non ce ne sono di buoni. Cerca verso Massa… quello al Cinquale sulla via verso il mare lavora bene. Non farti fregare.”
Il fanto corrucciò un poco la fronte.
“Mi si spegne. E lo devo spingere. Da ora che sono arrivato al Cinquale è sera. No, vado da un mio amico, ce lo facciamo da soli.”
“E’ la meglio.”
Il fanto si stava già incamminando verso la fine delle cabine, sempre con quel passo misurato.
Mario alzò gli occhi. Il fanto e le nuvole che aveva sopra, rapprese addosso alle Apuane.
“Copriti che arriva!”
Da laggiù il fanto si chiuse nelle spalle, prima di uscire.